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Il Vangelo Ebraico di Boyarin

O sei ebreo, o sei cristiano …. Ma siamo proprio sicuri che sia così ? Daniel Boyarin, professore di Cultura talmudica all’Università della California, riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori studiosi di Talmud, lo mette in dubbio. Le sue tesi in proposito sono contenute in un’opera recentemente tradotta in italiano: “Il Vangelo ebraico. Le vere origini del cristianesimo”.

Ecco come si esprime Boyarin nel suo libro:

“I termini «ebrei cristiani» ed «ebrei non cristiani» che userò in questo libro potrebbero spiazzare chi ancora considera cristiani ed ebrei due entità opposte. Ma se guardiamo attentamente ai primi secoli dopo Cristo, cominceremo a vedere che è proprio questo il modo in cui dobbiamo affrontare la storia della religione degli ebrei, a quel tempo. Prima di arrivarci, tuttavia, potrebbe essere utile mettere in discussione alcuni dei nostri assunti di fondo su cosa siano le religioni.
Per i moderni, le religioni sono dei set preconfezionati di convinzioni dotati di confini ben definiti. Di solito ci domandiamo: Quali convinzioni proibisce il cristianesimo, quali pratiche richiede ? E ci facciamo le stesse domande in merito all’ebraismo, all’induismo, all’islam, al buddhismo, le cosiddette grandi religioni. Un approccio del genere, com’è ovvio, boccia l’idea che uno possa essere al contempo ebreo e cristiano, assimilandola a una contraddizione in termini. Gli ebrei non corrispondono alla definizione che si dà dei cristiani, e i cristiani non corrispondono alla definizione che si dà degli ebrei. Vi sono semplici incompatibilità tra queste due religioni che rendono impossibile l’appartenenza a entrambe. In questo libro sosterrò la tesi secondo la quale ciò non si rispecchia sempre nei fatti, e nello specifico non rappresenta bene la situazione dell’ ebraismo e del cristianesimo dei primi secoli dopo Cristo.” ( Tratto da Notizie su Israele )

Garibaldi e i suoi Tempi – Immagini dei Protagonisti

Garibaldi uomo del popolo e per il popolo. È forse proprio questa la motivazione più profonda della sua immensa popolarità che, certo, non fu «inventata », come sembrerebbe suggerirci il titolo sicuramente poco felice della recente fatica della studiosa anglosassone Lucy Riall. Certamente Garibaldi mostrò una grande contemporaneità nel sapiente uso della propaganda resa possibile dall’enorme sviluppo di strumenti come la stampa e la fotografia. E se sicuramente i media allora disponibili non lesinarono sforzi per esaltarne le gesta e tributarne una fama pressoché mondiale, tale fama non era certo usurpata, perché sostanziata dai fatti e fortemente ancorata ai grandi ideali di cui il nostro Eroe nel corso della sua vita si fece interprete.
D’altra parte il tema del mito di Garibaldi ha avuto un grande sviluppo nel dibattito storiografico anche se la riflessione si è maggiormente soffermata sull’uomo e le sue gesta, mentre appare sempre più pressante l’esigenza di sviluppare indagini più mirate per comprendere il senso che il movimento che ha accompagnato e sostenuto le imprese dell’Eroe dei due Mondi, il garibaldinismo, per intenderci, ha avuto nella storia italiana dopo la scomparsa del suo Duce. Se Garibaldi poteva gestire con una certa tranquillità anche gli aspetti più evidentemente contraddittori del suo pensiero, alla sua morte si sviluppava immediatamente una vivace lotta tesa a rivendicare l’eredità politica dell’Eroe, con il risultato di un obiettivo indebolimento del movimento garibaldino. Le varie componenti finirono per scontrarsi sui temi del parlamentarismo, della repubblica, della massoneria, per limitarci ai più rilevanti, e gli echi di quelle differenziazioni accompagneranno i momenti più salienti della vicenda politica italiana praticamente sino ai nostri giorni. ( Tratto da Introduzione di Domenico Scacchi )

Lucca: Le Mura del Cinquecento

Le mura di Lucca sono il secondo maggior esempio in Europa di mura costruite secondo i principi della fortificazione alla moderna che si sia conservata completamente integra in una grande città. Nicosia, capitale di Cipro, detiene il record con una cerchia muraria di 4,5 km con 11 bastioni e tre porte.

L’attuale cerchia muraria di Lucca, lunga esattamente 4 chilometri e 223 metri, è frutto dell’ultima campagna di ricostruzione, partita nel 7 maggio del 1504 e terminata solamente un secolo e mezzo dopo, nel 1648. I lavori hanno avuto luogo anche nella seconda metà del Seicento, con aggiornamenti strutturali basati sulle nuove conoscenze e tecniche costruttive. Mai utilizzata a scopo difensivo, la struttura moderna si articola su 12 cortine ed 11 baluardi. Questi sono visti come un forte segno di identità culturale e come contenitore per la memoria storica del territorio.

Le mura furono concepite anche come deterrente. In particolare la Repubblica di Lucca temeva le mire espansionistiche prima di Firenze e, successivamente, del Granducato di Toscana. Tuttavia non si arrivò mai ad una vera guerra aperta contro il Granducato. Vi furono conflitti con il Ducato di Modena (secoli XVI e XVII), ma esclusivamente in Garfagnana, perciò Lucca non dovette mai subire alcun assedio. L’unica occasione in cui le mura furono messe alla prova fu durante la disastrosa alluvione del Serchio nel 18 novembre del 1812. Le porte furono sprangate e con l’ausilio di materassi e pagliericci fu garantita una relativa tenuta all’acqua del centro di Lucca. La stessa Elisa Bonaparte, Principessa di Lucca e Piombino, per entrare nella città fu fatta issare con una sorta di bilanciere per non aprire i battenti sprangati alla furia delle acque. ( Tratto da Wikipedia )

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Libri & Letture

Aggiornato al 8 Gennaio 2023

 

LIBRO: Popolo Nazione Stato di Sergio Panunzio

SERGIO PANUNZIO, POPOLO, NAZIONE, STATO, LA NUOVA ITALIA, 1933

Sergio Panunzio nacque a Molfetta da Vito e Giuseppina Poli nel 1886, in una famiglia altoborghese, tra le più illustri della città: «un ambiente familiare intriso tanto di sollecitazioni all’impegno civile e politico quanto di suggestioni e stimoli intellettuali»

Il suo impegno politico nelle file del socialismo incominciò molto presto, quando ancora frequentava il liceo classico locale, ove ebbe come maestro il giovane Pantaleo Carabellese.

Nel dibattito interno al socialismo italiano — diviso tra “riformisti” e “rivoluzionari” — Panunzio si schierò tra i cosiddetti sindacalisti rivoluzionari, cominciando al contempo a pubblicare i suoi primi articoli sul settimanale «Avanguardia Socialista» di Arturo Labriola, quando era ancora studente dell’Università degli Studi di Napoli. Durante i suoi studi universitari il contatto con docenti come Francesco Saverio Nitti, Napoleone Colajanni, Igino Petrone e Giuseppe Salvioli contribuì alla formazione del suo pensiero socialista. Il suo percorso intellettuale fu altresì influenzato da Georges Sorel e Francesco Saverio Merlino, i quali avevano già da tempo incominciato un processo di revisione del marxismo.

Nel 1907 pubblica il suo primo studio, intitolato Il socialismo giuridico, in cui teorizza l’opposizione alla borghesia solidarista e al sindacato riformista da parte del sindacato operaio, il quale è destinato a trasformare radicalmente la società. Il fulcro dell’opera era costituito dalla formulazione di un “diritto sindacale operaio”, spina dorsale di un nuovo “sistema socialista” fondato non su una base economica, bensì su una base etica, solidaristica:

«Il socialismo giuridico non sarebbe dunque che l’applicazione del principio di solidarietà, immanente in tutto l’universo, nel campo del diritto e della morale: in se stesso non è una idea astratta balzata ex abrupto dal cervello di pochi pensatori, ma efflusso e irradiazione ideale di tutta la materia sociale che vive e freme attorno a noi»

La concezione panunziana del sindacato quale organo e fonte di diritto — non eusarentesi quindi in mero organismo economico o tecnico della produzione — fu approfondita nel 1909, allorché vide la luce la sua seconda opera, La persistenza del diritto, in cui egli «coniugava i princìpi della sua formazione positivistica con una ispirazione filosofica volontaristica». Panunzio prendeva quindi le mosse affrontando il problema del rapporto tra sindacalismo e anarchismo: la differenza tra i due movimenti risiedeva — a detta dell’autore — sul ruolo dell’autorità (fondata sul diritto) che, negata dall’anarchismo, non era invece trascurata dal sindacalismo:

«Il sindacalismo è d’accordo con l’anarchia nella critica e nella tendenza distruttiva dello Stato politico attuale, ma non porta alle ultime conseguenze le sue premesse antiautoritarie, che hanno un riferimento tutto contingente allo Stato presente. Il sindacalismo, per essere precisi, è antistatale per definizione e consenso unanime, ma non è antiautoritario. Le premesse antiautoritarie dell’anarchia hanno invece un valore assoluto e perentorio riferendosi esse a ogni forma di organizzazione sociale e politica. Il sindacalismo non è dunque antiautoritario»

In sostanza, Panunzio sosteneva l’importanza fondamentale del diritto (ancorché non “statale”, ma “operaio”) per il sindacalismo e la futura società, dall’autore vagheggiata come un regime sindacalista federale sostenuto dall’autogoverno dei gruppi sindacali, riuniti in una Confederazione, così da formare quella che l’autore stesso chiama «una vera grande Repubblica sociale del Lavoro», retta da una «sovranità politica sindacale».

Nel 1910, fu poi dato alle stampe Sindacalismo e Medio Evo, in cui l’autore indicava al sindacalismo operaio il modello dei Comuni italiani medievali, esempio paradigmatico di autonomia, la quale doveva essere perseguita anche dai sindacati contemporanei.

Dopo un periodo difficile, dovuto a problemi familiari ma anche a un ripensamento delle sue teorie politiche, nel 1912, grazie all’interessamento di Nitti, abbandonò l’attività di avvocato, inadeguata per mantenere la famiglia (aiutava principalmente — raramente pagato — i suoi compagni di partito), divenendo docente di pedagogia e morale presso la Regia scuola normale di Casale Monferrato. Nello stesso anno pubblicò inoltre la sua importante opera. Il Diritto e l’Autorità, in cui erano messe a frutto le sue rielaborazioni teoriche: oltre al passaggio da un orizzonte positivistico a una concezione filosofica neocriticistica, egli ripensava lo Stato non più quale organo della coazione, ma quale depositario della necessaria autorità. Il 1912 è un anno per lui importante anche perché, con la fine della guerra libica, cominciò a prender corpo la svolta “nazionale” del suo pensiero.

Dopo aver insegnato per un anno a Casale Monferrato e un altro a Urbino, nel 1914 passò alla Regia scuola normale “Giosuè Carducci” di Ferrara, ove insegnò sino al 1924, conseguendo al contempo la libera docenza presso l’Università di Napoli (l’anno successivo gli fu trasferita nell’ateneo bolognese). È di quegli anni — poco prima dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra — l’inizio di stretti rapporti politici e intellettuali con Benito Mussolini, direttore dell’«Avanti!» e leader dell’ala rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano. Panunzio incominciò dunque una regolare e intensa collaborazione con il quindicinale «Utopia», appena fondato dal futuro capo del fascismo per far esprimere le voci più rivoluzionarie, eterodosse ed “eretiche” dell’ambiente socialistico italiano. In questo periodo Panunzio comprende il potenziale rivoluzionario che il conflitto europeo poteva esprimere, sicché manifesterà sempre più esplicitamente il suo appoggio all’interventismo, che era invece inviso al Partito Socialista:

«Io sono fermamente convinto che solo dalla presente guerra, e quanto più questa sarà acuta e lunga, scatterà rivoluzionariamente il socialismo in Europa. Altro che assentarsi, piegarsi le braccia, e contemplare i tronconi morti delle verità astratte! (…). Alle guerre esterne dovranno succedere le interne, le prime devono preparare le seconde, e tutte insieme la grande luminosa giornata del socialismo, che sarà la soluzione e la purificazione ideale di queste giornate livide e paurose, macchiate di misfatti e di infamie» Sergio Panunzio  ( Wikipedia )

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Aggiornato al 28 Gennaio 2024