LIBRO: Il Digiuno nella Chiesa Antica

IL DIGIUNO NELLA CHIESA ANTICA, TESTI SIRIACI, LATINI E GRECI, EDIZIONI PAOLINE

Il digiuno nell’esempio e nella parola di Gesù 

Il digiuno dei cristiani trova il suo modello e il suo significato nuovo e originale in Gesù.
E vero che il Maestro non impone in modo esplicito ai discepoli nessuna pratica particolare di digiuno e di astinenza. Ma ricorda la necessità del digiuno per lottare contro il maligno e durante tutta la sua vita, in alcuni momenti particolarmente significativi, ne mette in luce l’importanza e ne indica lo spirito e lo stile secondo cui viverlo.
Quaranta giorni di digiuno precedono il combattimento spirituale delle “tentazioni”, che Gesù affronta nel deserto e che supera con la ferma adesione alla parola di Dio: «Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (Mt 4,4). Con il suo digiuno Gesù si prepara a compiere la sua missione di salvezza in filiale obbedienza al Padre e in servizio d’amore agli uomini.
Riprendendo la pratica e il valore del digiuno in uso presso il popolo di Israele, Gesù ne afferma con forza il significato essenzialmente interiore e religioso, e rifiuta pertanto gli atteggiamenti puramente esteriori e «ipocriti» (cfr. Mt 6,1-6.16-18): digiuno, preghiera ed elemosina sono un atto di offerta e di amore al Padre «che è nel segreto» e «che vede nel segreto» (Mt 6,18). Sono un aspetto essenziale della sequela di Cristo da parte dei discepoli.
Quando gli viene domandato per quale motivo i suoi discepoli non praticano le forme di digiuno che sono in uso presso taluni ambienti del giudaismo del tempo, Gesù risponde: «Finché [gli invitati alle nozze] hanno lo sposo con loro, non possono digiunare» (Mc 2,19). La pratica penitenziale del digiuno non è adatta a manifestare la gioia della comunione sponsale dei discepoli con Gesù. Ma egli subito aggiunge: «Verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno» (Mc 2,20). In queste parole la Chiesa trova il fondamento dell’invito al digiuno come segno di partecipazione dei discepoli all’evento doloroso della passione e della morte del Signore, e come forma di culto spirituale e di vigilante attesa, che si fa particolarmente intensa nella celebrazione del Triduo della Santa Pasqua.
Il riferimento a Cristo e alla sua morte e risurrezione è essenziale e decisivo per definire il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, come di ogni altra forma di mortificazione: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). E infatti nella sequela di Cristo e nella conformità con la sua croce gloriosa che il cristiano trova la propria identità e la forza per accogliere e vivere con frutto la penitenza.

La prassi penitenziale nell’Antico Testamento 

La pratica del digiuno, così come quella dell’elemosina e della preghiera, non è una novità portata da Gesù: egli rimanda all’esperienza religiosa del popolo d’Israele, dove il digiuno è praticato come momento di professione di fede nell’unico vero Dio, fonte di ogni bene, e come elemento necessario per superare le prove alle quali sono sottoposte la fede e la fiducia nel Signore.
Mosè ed Elia si astengono dal cibo per prepararsi all’incontro con Dio. La coscienza del peccato, il dolore e il pentimento, la conversione e l’espiazione, pur manifestandosi in molteplici modi, trovano nel digiuno la loro espressione più naturale e immediata. Le celebrazioni penitenziali, in tempo di gravi calamità e nei momenti decisivi dell’Alleanza fra Dio e il suo popolo, comportano anche l’indizione di un solenne digiuno per l’intera comunità.  A rendere più intensa l’implorazione della preghiera, Israele ricorre alla prostrazione fisica che segue alla rinuncia del cibo. Privandosi del cibo, alcuni protagonisti della storia del popolo d’Israele riconoscono i limiti della loro forza umana e si appellano alla forza di Dio, che solo li può salvare.
E tuttavia anche nelle pratiche di digiuno, come in ogni espressione della religiosità, si possono annidare molte insidie: l’autocompiacimento, la pretesa di rivendicare diritti di fronte a Dio, l’illusione di esimersi con un dovere cultuale dai più stringenti doveri verso il prossimo. Per questo il profeta denuncia la falsità del formalismo e predica il vero digiuno che il Signore vuole:
«Sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo… Dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo» (Is 58,6-7).
C’è dunque un intimo legame fra il digiuno e la conversione della vita, il pentimento dei peccati, la preghiera umile e fiduciosa, l’esercizio della carità fraterna e la lotta contro l’ingiustizia: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina con la giustizia» (Tob 12,8).

La vita nuova secondo lo Spirito

Per il cristiano la mortificazione non è mai fine a se stessa né si configura come semplice strumento di controllo di sé, ma rappresenta la via necessaria per partecipare alla morte gloriosa di Cristo: in questa morte egli viene inserito con il Battesimo e dal Battesimo riceve il dono e il compito di esprimerla nella vita morale (cfr. Rm 6,3-4), in una condotta che comporta il dominio su tutto ciò che è segno e frutto del male: «fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria» (Col 3,5).
L’adesione a Cristo morto e risorto e la fedeltà al dono della vita nuova e della vera libertà esigono la lotta contro il peccato che inquina il cuore dell’uomo, e contro tutto ciò che al peccato conduce: di qui la necessità della rinuncia. «Cristo ci ha liberati perché restassimo liben» (Gal 5,1). Consapevole di questa responsabilità, l’apostolo Paolo, ad imitazione degli atleti che si preparano a gareggiare nello stadio, afferma senza timori: «Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9,27).
L’impegno al dominio di sé e alla mortificazione è dunque parte integrante dell’esperienza cristiana come tale e rientra nelle esigenze della vita nuova secondo lo Spirito: «Vi dico dunque: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne… Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,16.22).
In particolare, per il cristiano l’astinenza non nasce dal rifiuto di alcuni cibi come se fossero cattivi: egli accoglie l’insegnamento di Gesù, per il quale non esistono né cibi proibiti né osservanze di semplice purità legale: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7,15). ( Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza – Episcopato Italiano )

 

 

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Aggiornato al 2 Gennaio 2024

 

LIBRO: Il Secondo Libro della Fantascienza di Fruttero & Lucentini

IL SECONDO LIBRO DELLA FANTASCIENZA, FRUTTERO E LUCENTINI, EINAUDI

Carlo Fruttero, nato a Torino nel 1926, viaggiatore istintivo e amante della lettura per passione. Franco Lucentini, nato a Roma nel 1920, suicidatosi a Torino nel 2002. Laureato in filosofia, uomo di cultura ed esperto di lingue.

Due uomini molto diversi. La loro collaborazione inizia alla casa editrice Einaudi, nel 1952 a Torino. In un ambiente devoto al rispetto dei luminari della cultura, Fruttero e Lucentini ridono insieme durante le seriose riunioni alla Giulio Einaudi. Giovani e spregiudicati, Fruttero e Lucentini curano per Einaudi un’antologia di fantascienza, Il secondo libro della fantascienza. Le meraviglie del possibile, Einaudi 1961 (preceduta da Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, di Fruttero e Sergio Solmi, 1959). Sono anni in cui la fantascienza e il fantastico sono considerati generi inferiori, troppo popolari, in primis dallo snob Einaudi.

Dopo un enorme successo, Fruttero nel 1961 passa alla Mondadori, per poi dirigere la collana Urania. Lucentini lo raggiunge nel 1964. Insieme cureranno la collana della musa dell’astronomia ( Urania ) fino al 1986

Il secondo libro della fantascienza

Il secondo libro della fantascienza, curato da Carlo Fruttero e Franco Lucentini e pubblicato da Einaudi nel 1961, è il seguito della celebre antologia di racconti di fantascienza Le meraviglie del possibile edita per la prima volta sempre per Einaudi nel 1959 e curata da Sergio Solmi. Contiene 32 racconti di 14 diversi autori, più una particolarissima appendice, che ospita il celebre racconto fantastico di Jorge Luis Borges La biblioteca di Babele.

Carlo Fruttero

Fruttero, dopo gli studi universitari nel corso dei quali conobbe Italo Calvino, si recò in Francia (1947) dove cominciò a tradurre per Giulio Einaudi, attività che svolse per molti anni prima di incontrare nel 1952 Franco Lucentini e costruire con questi un team di scrittura destinato ad un grande successo di critica e di vendite. Con la sigla Fruttero & Lucentini, i due scrittori firmarono collaborazioni giornalistiche, traduzioni e romanzi, soprattutto di genere poliziesco, molto amati dal pubblico.

Morì il 15 gennaio 2012 nella sua villa nella pineta di Roccamare a Castiglione della Pescaia, e fu sepolto nel cimitero del comune maremmano accanto all’amico Italo Calvino.

Franco Lucentini

Poliglotta, si laureò in filosofia a Roma nel 1943. Debuttò come narratore nel 1951 nella storica collana diretta da Elio Vittorini “I gettoni” di Einaudi con I compagni sconosciuti, seguito nel 1964 da Notizie degli scavi (da cui nel 2011 è stato tratto un film omonimo per la regia di Emidio Greco).

Lucentini conobbe Carlo Fruttero negli anni cinquanta: i due scrittori si conobbero in un bistrot a Parigi, attraverso amici comuni. Si incontrarono di nuovo cinque anni dopo a Torino presso l’editore Giulio Einaudi e iniziarono una fruttuosa collaborazione, che durò più di quarant’anni: oltre ai libri e agli articoli scritti a quattro mani, Fruttero & Lucentini hanno diretto per Mondadori la collana di fantascienza Urania e curato diverse antologie di narrativa.

Malato di un tumore ai polmoni, si tolse la vita gettandosi dalla tromba delle scale del proprio appartamento, gesto che ricordò a molti la morte di un altro scrittore torinese, Primo Levi. Le sue ceneri riposano al Cimitero monumentale di Torino.

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Aggiornato al 5 Gennaio 2024

 

 

LIBRI: Storia di Roma di Theodor Mommsen

T. MOMMSEN, STORIA DI ROMA, AEQUA, 1938-39

La Storia di Roma è una trattazione storica composta da più volumi di Roma antica scritto da Theodor Mommsen (1817–1903). Il lavoro affrontata il periodo storico della Repubblica romana. Un quarto e successivo volume riguardava le province dell’impero romano. Recentemente è stato pubblicato un quinto libro sull’Impero, ricostruito sulla base di sue dispense. I primi tre volumi hanno avuto ampia eco dal momento stesso della loro pubblicazione. Ancora studiato e citato, è il più noto lavoro del pur prolifico autore, tanto che fu espressamente citato nella motivazione per il Nobel per la letteratura attribuito a Mommsen nel 1902.

Un quarto volume, programmato per coprire la prima parte dell’Impero romano, occupò l’attività di ricerca, scrittura e redazione di Mommsen per molti anni. Dopo ripetuti ritardi il progetto di questo quarto volume fu abbandonato, o almeno non fu portato a termine.

Theodor Mommsen

Nato a Garding, Schleswig-Holstein, allora parte della monarchia Danese, crebbe a Oldesloe e fece i suoi primi studi ad Altona.

Mommsen studiò giurisprudenza a Kiel dal 1838 al 1843. Grazie a una borsa di studio, poté visitare la Francia e l’Italia per approfondire la storia classica. Durante la rivoluzione del 1848, Mommsen fu corrispondente a Rendsburg e divenne professore di legge nello stesso anno all’Università di Lipsia. A causa delle sue idee liberali dovette dimettersi nel 1851, ma già nel 1852 ottenne una cattedra in Diritto romano all’Università di Zurigo e poi, nel 1854, all’Università di Breslavia.

Nel 1858 fu chiamato all’Accademia delle scienze di Berlino e divenne professore di storia romana all’Università di Berlino nel 1861, dove tenne lezioni fino al 1887. Ricevette alti riconoscimenti per i suoi successi scientifici: la medaglia Pour le Mérite nel 1868, la cittadinanza onoraria di Roma e il premio Nobel per la letteratura nel 1902 per l’opera maggiore Römische Geschichte (Storia romana). Mommsen e la moglie Marie (figlia dell’editore Karl Reimer di Lipsia), ebbero sedici figli, alcuni dei quali morirono in giovane età. Due nipoti, Hans e Wolfgang, sono eminenti storici tedeschi. ( Wikipedia )

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Aggiornato a 29 Novembre 2023