LIBRO: Il Vero e il Giusto di Raymond Boudon

BOUDON: IL VERO E IL GIUSTO

Già nel Vero e il giusto Boudon propone di affrontare il discorso sul fondamento dei giudizi di valore adottando un approccio epistemologico. Proposizioni come «x è buono, cattivo, legittimo, illegittimo ecc.» vengono, cioè, considerate alla stregua di proposizioni comunemente riconosciute come scientifiche, quale ad esempio «Esiste una forza che attira gli oggetti verso il centro della Terra». Come tali, possono essere parte o costituire esse stesse una teoria scientifica. Ora, qualsiasi teoria, di conseguenza anche le teorie che esprimono la spiegazione delle norme e dei valori, deve sempre necessariamente fondarsi su quelle che egli definisce «certe proposizioni “prime”, in altre parole su dei “principi”». La necessità inderogabile di questo fondamento per le teorie, unitamente all’impossibilità logica di dimostrare la validità dei principi (che sono sempre degli assunti), determinano la natura dilemmatica dell’enunciato che è anche il teorema fondamentale dell’epistemologia, indicato da Hans Albert come il «Trilemma di Münchhausen». ( Tratto da Quaderni di Sociologia di Roberto Scalon )

Raymond Boudon

Boudon contrappone all’Homo oeconomicus della Teoria della scelta razionale, un individuo dotato di una razionalità situata, cioè legata alle condizioni sociali e culturali dell’attore stesso. Quest’uomo, l’Homo sociologicus, non ragiona solo in termini di beneficio, Boudon infatti afferma che valori, credenze ed abitudini non possono esser tralasciate in quanto l’individuo le interiorizza. Inoltre gli individui possono commettere errori non potendo sempre individuare la scelta migliore, la sua razionalità è limitata, data l’insufficienza di informazioni di cui l’attore dispone. L’individuo può essere condizionato da scelte ideologiche ed infine essendo integrato, in costante interazione con la società, deve rispondere a attese sociali legate al suo ruolo. L’Homo sociologicus di Boudon agisce in modo razionale, ma anche per “buone ragioni” condizionate da valori, convinzioni e soprattutto dall’identità personale, concetto che si distacca completamente dal modello della Teoria della scelta razionale e dal concetto weberiano di agire razionale rispetto allo scopo. ( Wikipedia )

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LIBRO: Il Digiuno nella Chiesa Antica

IL DIGIUNO NELLA CHIESA ANTICA, TESTI SIRIACI, LATINI E GRECI, EDIZIONI PAOLINE

Il digiuno nell’esempio e nella parola di Gesù 

Il digiuno dei cristiani trova il suo modello e il suo significato nuovo e originale in Gesù.
E vero che il Maestro non impone in modo esplicito ai discepoli nessuna pratica particolare di digiuno e di astinenza. Ma ricorda la necessità del digiuno per lottare contro il maligno e durante tutta la sua vita, in alcuni momenti particolarmente significativi, ne mette in luce l’importanza e ne indica lo spirito e lo stile secondo cui viverlo.
Quaranta giorni di digiuno precedono il combattimento spirituale delle “tentazioni”, che Gesù affronta nel deserto e che supera con la ferma adesione alla parola di Dio: «Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (Mt 4,4). Con il suo digiuno Gesù si prepara a compiere la sua missione di salvezza in filiale obbedienza al Padre e in servizio d’amore agli uomini.
Riprendendo la pratica e il valore del digiuno in uso presso il popolo di Israele, Gesù ne afferma con forza il significato essenzialmente interiore e religioso, e rifiuta pertanto gli atteggiamenti puramente esteriori e «ipocriti» (cfr. Mt 6,1-6.16-18): digiuno, preghiera ed elemosina sono un atto di offerta e di amore al Padre «che è nel segreto» e «che vede nel segreto» (Mt 6,18). Sono un aspetto essenziale della sequela di Cristo da parte dei discepoli.
Quando gli viene domandato per quale motivo i suoi discepoli non praticano le forme di digiuno che sono in uso presso taluni ambienti del giudaismo del tempo, Gesù risponde: «Finché [gli invitati alle nozze] hanno lo sposo con loro, non possono digiunare» (Mc 2,19). La pratica penitenziale del digiuno non è adatta a manifestare la gioia della comunione sponsale dei discepoli con Gesù. Ma egli subito aggiunge: «Verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno» (Mc 2,20). In queste parole la Chiesa trova il fondamento dell’invito al digiuno come segno di partecipazione dei discepoli all’evento doloroso della passione e della morte del Signore, e come forma di culto spirituale e di vigilante attesa, che si fa particolarmente intensa nella celebrazione del Triduo della Santa Pasqua.
Il riferimento a Cristo e alla sua morte e risurrezione è essenziale e decisivo per definire il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, come di ogni altra forma di mortificazione: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). E infatti nella sequela di Cristo e nella conformità con la sua croce gloriosa che il cristiano trova la propria identità e la forza per accogliere e vivere con frutto la penitenza.

La prassi penitenziale nell’Antico Testamento 

La pratica del digiuno, così come quella dell’elemosina e della preghiera, non è una novità portata da Gesù: egli rimanda all’esperienza religiosa del popolo d’Israele, dove il digiuno è praticato come momento di professione di fede nell’unico vero Dio, fonte di ogni bene, e come elemento necessario per superare le prove alle quali sono sottoposte la fede e la fiducia nel Signore.
Mosè ed Elia si astengono dal cibo per prepararsi all’incontro con Dio. La coscienza del peccato, il dolore e il pentimento, la conversione e l’espiazione, pur manifestandosi in molteplici modi, trovano nel digiuno la loro espressione più naturale e immediata. Le celebrazioni penitenziali, in tempo di gravi calamità e nei momenti decisivi dell’Alleanza fra Dio e il suo popolo, comportano anche l’indizione di un solenne digiuno per l’intera comunità.  A rendere più intensa l’implorazione della preghiera, Israele ricorre alla prostrazione fisica che segue alla rinuncia del cibo. Privandosi del cibo, alcuni protagonisti della storia del popolo d’Israele riconoscono i limiti della loro forza umana e si appellano alla forza di Dio, che solo li può salvare.
E tuttavia anche nelle pratiche di digiuno, come in ogni espressione della religiosità, si possono annidare molte insidie: l’autocompiacimento, la pretesa di rivendicare diritti di fronte a Dio, l’illusione di esimersi con un dovere cultuale dai più stringenti doveri verso il prossimo. Per questo il profeta denuncia la falsità del formalismo e predica il vero digiuno che il Signore vuole:
«Sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo… Dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo» (Is 58,6-7).
C’è dunque un intimo legame fra il digiuno e la conversione della vita, il pentimento dei peccati, la preghiera umile e fiduciosa, l’esercizio della carità fraterna e la lotta contro l’ingiustizia: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina con la giustizia» (Tob 12,8).

La vita nuova secondo lo Spirito

Per il cristiano la mortificazione non è mai fine a se stessa né si configura come semplice strumento di controllo di sé, ma rappresenta la via necessaria per partecipare alla morte gloriosa di Cristo: in questa morte egli viene inserito con il Battesimo e dal Battesimo riceve il dono e il compito di esprimerla nella vita morale (cfr. Rm 6,3-4), in una condotta che comporta il dominio su tutto ciò che è segno e frutto del male: «fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria» (Col 3,5).
L’adesione a Cristo morto e risorto e la fedeltà al dono della vita nuova e della vera libertà esigono la lotta contro il peccato che inquina il cuore dell’uomo, e contro tutto ciò che al peccato conduce: di qui la necessità della rinuncia. «Cristo ci ha liberati perché restassimo liben» (Gal 5,1). Consapevole di questa responsabilità, l’apostolo Paolo, ad imitazione degli atleti che si preparano a gareggiare nello stadio, afferma senza timori: «Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9,27).
L’impegno al dominio di sé e alla mortificazione è dunque parte integrante dell’esperienza cristiana come tale e rientra nelle esigenze della vita nuova secondo lo Spirito: «Vi dico dunque: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne… Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,16.22).
In particolare, per il cristiano l’astinenza non nasce dal rifiuto di alcuni cibi come se fossero cattivi: egli accoglie l’insegnamento di Gesù, per il quale non esistono né cibi proibiti né osservanze di semplice purità legale: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7,15). ( Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza – Episcopato Italiano )

 

 

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Aggiornato al 2 Gennaio 2024

 

LIBRO: Le Catacombe Romane di Orazio Marucchi

ORAZIO MARUCCHI, LE CATACOMBE ROMANE 

Le catacombe di Roma sono antiche aree cimiteriali sotterranee ebraiche e cristiane. Erano solitamente scavate nel tufo al di fuori dell’antica cinta muraria della città, dato che all’interno di quest’ultima non era possibile seppellire i defunti ( hominem mortuum in urbe neve sepelito neve urito, “Non si seppellisca né si cremi nessun cadavere in città” ). Nel sottosuolo di Roma esistono più di 40 catacombe che si snodano per circa 150 km e su più livelli.

I nuclei più antichi delle catacombe romane risalgono alla fine del II secolo. Precedentemente i cristiani venivano sepolti insieme con i pagani; quando la comunità divenne più numerosa, fu necessario creare cimiteri collettivi. Per risolvere il problema dello spazio e grazie alla facilità dello scavo nel banco di tenero tufo sottostante la città, essi vennero realizzati con gallerie sotterranee a più piani. All’inizio le catacombe vennero utilizzate esclusivamente per scopi funerari e per il culto dei martiri ivi sepolti. L’opinione comune che vuole che esse fossero utilizzate come nascondigli dai cristiani perseguitati è probabilmente priva di fondamento. Del resto le persecuzioni caratterizzarono solamente alcuni periodi dell’Impero Romano, al tempo di Nerone (tra il 64 e il 67), Domiziano (solo nel 96), Valeriano (253-260) e Diocleziano (303-305). ( Wikipedia )

Catacombe di San Callisto, San Sebastiano e Santa Domitilla

Tre delle più importanti e più grandi catacombe presenti a Roma sono quelle di San Callisto, San Sebastiano e Santa Domitilla.
Tutte e tre sono comprese nella zona dell’Appia Antica – tra Via Appia e via Ardeatina – e sono vicine le una alle altre.
Prima di iniziare la discesa in questi labirinti sotterranei carichi di storia e suggestioni, è d’obbligo una piccola sosta per assaporare la pace bucolica della stradina che si trova all’incrocio tra la Via Appia e la Via Ardeatina, all’ingresso alle catacombe di San Callisto, da dove inizia il percorso.

Catacombe di San Callisto – Via Appia Antica, 110 – km. 1,8

Sorte verso la metà del secondo secolo, in esse trovarono sepoltura più di 500.000 cristiani, tra cui decine di martiri e 16 pontefici.
Le catacombe di San Callisto occupano un’area di 15 ettari e contano quasi 20 km di gallerie sotterranee, che scendono a grande profondità ( 20mt. ) e si diramano su quattro e a volte cinque livelli, fiancheggiati da loculi ( nicchie scavate ) disposti su due e tre livelli l’uno sull’altro.
Nella parte superiore del complesso ( “sopraterra” ) sono visibili due piccole basiliche con tre absidi, dette “Tricore”. In quella orientale furono probabilmente sepolti il papa S. Zefirino e il giovane martire dell’Eucarestia, S.Tarcisio.
Nella zona sottorranea, la Cripta dei Papi è sicuramente il luogo più importante. Definito anche “il piccolo Vaticano”, questo luogo conserva i resti di almeno cinque Papi martirizzati e poi santificati.
La Santa Cecilia è sepolta dove ora si trova la sua stupenda statua, capolavoro di Stefano Maderno. Nell’821 le reliquie di Santa Cecilia furono trasportate in Trastevere nella basilica a lei dedicata. 
La cripta era interamente decorata con affreschi e mosaici.
I Cubicoli dei Sacramenti sono tombe di famiglia, all’interno delle quali si trovano importanti affreschi, databili inizio del III secolo. In queste suggestive pitture sono rappresentati simbolicamente i sacramenti del Battesimo e dell’Eucarestia. In un affresco, inoltre, è raffigurato anche il profeta Giona, simbolo di resurrezione.

Catacombe di San Sebastiano – Via Appia Antica,136 – km. 2,4

È qui che si trovano le prime tombe cristiane definite “catacombe” dal nome con cui era nota la vallata. Le catacombe di San Sebastiano sono molto simili a quelle di San Callisto. Presentano quattro livelli di profondità, e all’interno sono ancora ben visibili alcuni dipinti risalenti ai primi tempi del Cristianesimo, stucchi graffiti e mosaici. La parte centrale dell’ itinerario è la Basilica di San Sebastiano, una delle sette mete di pellegrinaggio a Roma.
La chiesa è in stile barocco. Nella prima cappella a sinistra si trova una statua in marmo di S. Sebastiano e accanto c’è la cripta in cui sono conservati i resti del Santo.
Nella cappella dell’abside di destra, sono custodite altre sacre reliquie: una pietra con un’impronta attribuita a Gesù Cristo; alcune delle frecce che trafissero S. Sebastiano, la colonna a cui fu legato il Santo, e infine le mani di S. Callisto e di S. Andrea.

Catacombe di S. Domitilla ( anche dette dei Santi Nereo e Achilleo ) – Via delle Sette Chiese, 282

Queste catacombe, non troppo distanti dalle precedenti, sono tra le più vaste e le più antiche. Si tratta di 15 km di gallerie sotterranee disposte su 4 livelli. Sono ben conservate e contano oltre 150.000 sepolture.
I corpi dei defunti venivano per lo più introdotti in fenditure poco profonde scavate nella pietra. I ricchi avevano tombe più spaziose e con archi decorati, che spesso erano vere e proprie tombe di famiglia.
La visita avviene scendendo alla basilica e da questa alle catacombe.
Una piccola basilica in muratura è dedicata ai Santi Nereo e Achilleo, martirizzati da Diocleziano e deposti in una cripta trasformata in edificio di culto.
La Basilica è a tre navate separate da due file di quattro colonne.  Altare maggiore: qui si trovano l’unica colonnina rimasta intatta, decorata con la decapitazione di Achilleo e la tomba di S. Petronilla.
La navata sinistra: qui si trovano le tombe di alcuni membri della famiglia dei Flavi Aureli ( seconda metà del II secolo ), la zona nata come ipogeo privato pagano, durante il III sec., accolse anche sepolture cristiane.  Al livello inferiore Interessanti il cubicolo con l’affresco del III secolo del Cristo Buon Pastore e la cosiddetta regione “della Madonna” in cui sono visibili dipinti del III e IV secolo, tra i quali spicca quello raffigurante i quattro Magi che si avvicinano alla Vergine con il Bambino. ( Italia.it Agenzia Nazionale Turismo )

 

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Aggiornato al 2 Gennaio 2024

 

 

 

LIBRO: I Morti e i Vivi dell’ARMIR di Fidia Gambetti

GAMBETTI: I MORTI E I VIVI DELL’ARMIR, 1953

L’8ª Armata italiana (conosciuta anche come Armata italiana in Russia – ARMIR) fu la grande unità del Regio Esercito che tra luglio 1942 e marzo 1943 operò sul fronte orientale, in appoggio alle forze tedesche della Wehrmacht impegnate sul fronte di Stalingrado. Al comando del generale Italo Gariboldi l’8ª Armata venne inquadrata all’interno dell’Heeresgruppe B di Maximilian von Weichs, e schierata sul medio Don a protezione dell’ala sinistra delle forze tedesche che in estate avevano dato il via all’assalto della città di Stalingrado.

Le forze di Gariboldi vennero quindi utilizzate per l’occupazione statica di un tratto del fronte del Don lungo duecentosettanta chilometri, tra Pavlovsk e la foce del fiume Chopër, dove fin dai primi giorni furono impegnate a resistere a continui e logoranti attacchi sovietici. La dislocazione definitiva delle unità italiane, rinforzate anche da alcune divisioni tedesche, terminò solo agli inizi di novembre, appena pochi giorni prima l’inizio dell’offensiva sovietica contro le armate rumene a nord e a sud di Stalingrado. Dopo aver travolto le forze rumene, il 23 novembre l’Armata Rossa accerchiò la 6ª Armata tedesca a Stalingrado, e tutto ciò finì per avere gravi ripercussioni sull’8ª Armata, la quale si trovò con l’ala destra scoperta e le unità tedesche di rinforzo inviate a sostegno altrove.

Il 16 dicembre l’armata italiana venne investita dalle forze sovietiche impegnate nell’operazione Piccolo Saturno, che travolsero il II e il XXXV Corpo d’armata italiano, e causarono lo sfaldamento totale dello schieramento italiano e del distaccamento tedesco-rumeno “Hollidt”. Ne seguì una ritirata disordinata attraverso la pianura sovietica che anticipò di circa un mese il catastrofico ripiegamento del Corpo d’armata alpino a seguito della seconda offensiva invernale sovietica del gennaio 1943. Il Corpo alpino non venne toccato dall’offensiva di dicembre e a gennaio era ancora schierato sul Don, a sud della 2ª Armata ungherese; ma l’11 gennaio scattò la nuova offensiva sovietica, che travolse le difese ungheresi e tra il 15 e il 16 anche quelle del Corpo alpino. Iniziò così una tragica ritirata di due settimane attraverso la steppa russa che si concluse il 31 gennaio, che decretò di fatto la fine dell’esperienza italiana sul fronte orientale e dell’8ª Armata.

Mario Rigoni Stern

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) è stato un militare e scrittore italiano. Il suo romanzo più noto è Il sergente nella neve (1953), un’autobiografia della ritirata di Russia.

Nel 1953, con il libro autobiografico Il sergente nella neve, pubblicato da Einaudi, Rigoni Stern racconta la sua esperienza di sergente degli alpini nella disastrosa ritirata di Russia durante la seconda guerra mondiale.

Con quest’opera egli si colloca all’interno della corrente narrativa neorealista. Il libro viene pubblicato su indicazione di Elio Vittorini, conosciuto da Rigoni Stern nel 1951, che suggerì alcune piccole modifiche stilistiche. Il testo è ricco di ricordi, immagini, storie che presentano analogie di situazioni, temi e umanità con i libri scritti da Primo Levi e Nuto Revelli, aventi come soggetto gli anni di guerra e le storie degli uomini che vissero quel periodo.

A proposito della Guerra di Russia dirà in seguito ….

«I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d’altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva né per Mussolini, né per il Re, si cercava di salvare la nostra vita.»

(da Ritratti: Mario Rigoni Stern di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini) [ Wikipedia ]

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Libri & Letture ( 7 )

Aggiornato al 2 Gennaio 2024

 

 

LIBRI: Tutte le Opere Narrative di Ippolito Nievo

TUTTE LE OPERE NARRATIVE DI IPPOLITO NIEVO – MURSIA

Ippolito Nievo nasce a Padova nell’anno 1831, nel palazzo Mocenigo Querini, primogenito di Antonio, magistrato, e di Adele Marin, figlia della contessa friulana Ippolita di Colloredo e del patrizio veneziano Carlo Marin, intendente di finanza a Verona.

Nel 1848 il giovane Ippolito, affascinato dal programma democratico di Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, probabilmente è coinvolto in prima persona nella fallita insurrezione di Mantova. Prudentemente, continua a Cremona gli studi con l’amico Attilio Magri e, l’anno dopo, poiché la famiglia ritiene opportuno che si allontani per qualche tempo dalla Lombardia, egli si trasferisce in Toscana, prima a Firenze e poi a Pisa. Qui entra in contatto con gli esponenti del partito democratico di Guerrazzi: anche la Toscana è scossa dai moti risorgimentali e forse Ippolito partecipa a Livorno al moto del 10 maggio 1849 contro gli Austriaci, intervenuti per favorire il ritorno del granduca Leopoldo fuggito quattro mesi prima da Firenze.

Nel 1855, deluso dalla situazione politica italiana, lo scrittore passò lunghi periodi a Colloredo di Montalbano, dove si dedicò attivamente alla produzione letteraria, delineando nella mente quello che fu il suo capolavoro, Le confessioni d’un italiano.

Nel 1856, a causa di un racconto intitolato L’avvocatino pubblicato sul foglio milanese Il Panorama universale, fu accusato di vilipendio nei confronti delle guardie imperiali austriache e subì un processo nel quale patrocinò se stesso. Fu questa l’occasione per trascorrere lunghi periodi a Milano dove ebbe modo di partecipare agli stimolanti dibattiti letterari e politici che si svolgevano e di apprezzare il vivace clima culturale di quella città. Ippolito Nievo iniziò una relazione con Bice Melzi d’Eril, moglie del cugino Carlo Gobio; le fu legato fino alla morte, indirizzandole numerose lettere durante l’intero periodo delle imprese garibaldine.

Tra il 1857 e il 1858 Nievo, ritornato a Colloredo, si dedicò intensamente alla stesura del suo grande romanzo Le confessioni d’un italiano che venne pubblicato postumo nel 1867 dall’editore Le Monnier con il titolo rivisto Le confessioni di un ottuagenario.

Gli eventi del 1859 e del 1860 resero più intensa la sua attività giornalistica e ne sollecitano i primi due saggi politici, l’opuscolo Venezia e la libertà d’Italia, ispirato dalla mancata liberazione della città e pubblicato a luglio 1859, e il Frammento sulla rivoluzione nazionale. Si dedicò inoltre alla stesura di un nuovo romanzo, Il pescatore di anime, destinato a rimanere incompiuto.

Nel 1859 fu tra i Cacciatori delle Alpi di Giuseppe Garibaldi e l’anno seguente partecipò alla Spedizione dei Mille, numero 690 nell’elenco de I Mille. Nello stesso periodo anche i suoi fratelli Carlo e Alessandro decisero di arruolarsi, ma nell’Esercito regolare.

Unendosi alle truppe garibaldine il 5 maggio del 1860, Nievo salpò da Quarto a bordo del Lombardo insieme a Nino Bixio e Cesare Abba. Distintosi nella battaglia di Calatafimi e a Palermo, raggiunse il grado di colonnello e gli venne affidata la nomina di “Intendente di prima classe” dell’impresa dei Mille, con incarichi amministrativi, divenendo il vice di Giovanni Acerbi. Fu anche attento cronista della spedizione ( Diario della spedizione dal 5 al 28 maggio e Lettere garibaldine ).

Il giovane colonnello, avendo ricevuto l’incarico di riportare dalla Sicilia i documenti amministrativi delle spese sostenute dalla spedizione, si imbarcò assieme ai capitani Maiolini e Salviati e allo scritturale Fontana. Sullo stesso vapore viaggiava Pietro Nullo, fratello minore di Francesco Nullo, che era volontario garibaldino, ma non era addetto all’Intendenza. Trovarono la morte durante la navigazione da Palermo a Napoli, nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1861, nel naufragio della nave a vapore Ercole. Tutte le persone imbarcate perirono e né relitti né cadaveri furono restituiti dal mare. ( Wikipedia )

Le confessioni di un italiano

Le confessioni d’un italiano ( inizialmente pubblicato con il titolo di Le confessioni di un ottuagenario ) è un romanzo di Ippolito Nievo pubblicato postumo nel 1867 di carattere storico, la cui vicenda si svolge negli anni che vanno dalla nascita del protagonista nel 1775 fino ai moti insurrezionali risorgimentali del 1848.

Nel romanzo viene narrata, sotto forma di un’autobiografia fittizia, la vicenda di Carlo Altoviti, personaggio che narra in prima persona la propria vita trascorsa come patriota, ma soprattutto come uomo che ha vissuto la trasformazione della propria identità da veneziano a italiano.

Il romanzo fu scritto tra il dicembre del 1857 e l’agosto del 1858 e si compone di ventitré capitoli, ognuno dei quali anticipato da un breve riepilogo. Nievo, però, non riuscì a pubblicare subito la sua opera, non trovando un editore disposto ad affrontare le difficoltà della lunghezza del testo e della censura.

Le confessioni vennero pubblicate, quindi, postume, con il titolo Le confessioni di un ottuagenario nel 1867 a Firenze dall’editore Le Monnier e a cura di Erminia Fuà Fusinato, moglie di Arnaldo Fusinato, amico dello stesso Nievo.

La presunta incompiutezza del romanzo indusse i primi editori ad apportare correzioni al testo, modifiche che crearono parecchi fraintendimenti critici, soltanto di recente messi nella loro chiara luce. Comunque il manoscritto originale, dal 1931 donato dalla famiglia Nievo è conservato nella Biblioteca comunale di Mantova.

L’opera ebbe una buona popolarità. Nel 1960 ne venne ricavata una riduzione per la televisione dal titolo La Pisana.

” Napoleone intanto si trova in Egitto e nel napoletano infuria la rivolta. Carlino segue la legione di Carafa che in Puglia fa strage di Turchi e Albanesi chiamati dai ribelli e trova il padre, ferito e prigioniero, che gli muore tra le braccia. Insieme a Pisana e Lucilio si rifugia a Genova dove vengono soccorsi da Sandro Giorgi, mugnaio di Fratta che è diventato colonnello. Carlino, in seguito alla vittoria di Marengo che ristabilisce la potenza di Napoleone, viene nominato prefetto delle Finanze a Bologna.

Date le dimissioni dopo breve tempo ritorna a Milano che lascerà, dopo Austerlitz, per recarsi a Venezia quando questa è unita al Regno d’Italia. A Venezia Carlino sposa Aquilina, sorella di Bruto Provedoni, per volere di Pisana, e per alcuni anni è un marito e un padre felice. Ma nel 1820, tornato a Napoli, partecipa alla rivoluzione contro re Ferdinando, viene ferito e fatto prigioniero. In carcere perde la vista e viene liberato grazie all’intervento di Pisana e con lei parte in esilio per Londra.

A Londra i due stentano la vita e Pisana, per aiutare Carlino, si mette a chiedere l’elemosina. Quivi incontrano Lucilio che esercita la sua professione di medico. Carlino viene operato da questi e riacquista la vista, mentre Pisana si ammala e muore. Carlino ritorna coi suoi a Venezia, dove gli muore il figlio Donato, già ferito nella rivoluzione di Romagna e muoiono di colera Lucilio e Spiro. “ ( Wikipedia )

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La libreria Aiace di via Ugo Ojetti 36, Roma, è un punto speciale per i lettori e le lettrici di Roma. Ci potete trovare saggi, romanzi, riviste, raccolte di poesie a prezzi incredibili, perché la caratteristica comune a tutti questi libri è che sono usati. Nessun imbarazzo, quindi: aprendo a caso una pagina o iniziando a divorare il testo non si ha la sensazione di profanare qualcosa di sacro che andrebbe conservato così com’è, bianco, immacolato e senza orecchie laterali. Qualcuno prima di voi ha già letto quel libro e lo ha già arricchito di quella patina antica che lo rende così prezioso.

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Libri & Letture

Aggiornato al 7 Dicembre 2023

 

 

LIBRO: Bucoliche & Georgiche di Virgilio

VIRGILIO: LE BUCOLICHE, LE GEORGICHE 

Publio Virgilio Marone, noto semplicemente come Virgilio ( Mantova 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21 settembre 19 a.C. ), è stato un poeta romano, autore di tre opere, tra le più famose della letteratura latina: le Bucoliche ( Bucolica o Eclogae ), le Georgiche ( Georgica ), e l’Eneide ( Æneis ).

Virgilio era originario dell’Italia settentrionale ( Gallia Cisalpina ). Nacque nei dintorni di Mantova sul Mincio, ad Andes, località che la tradizione identifica con Pietole, da famiglia di agricoltori che ivi possedevano i loro terreni. Fece i primi studi nella vicina Cremona, poi a Milano, dov’erano le scuole migliori della Gallia Cisalpina; e di qui, fra il 55 e il 50 a. C., passò a Roma a coltivare eloquenza sotto la guida d’un reputatissimo maestro di retorica, Epidio, dal quale si recavano i figli delle più cospicue e ricche famiglie, come il giovane nipote di Cesare, Ottavio, futuro Ottaviano Augusto.

Virgilio, per il senso sublime dell’arte e per l’influenza che esercitò nei secoli, fu il massimo poeta di Roma, nonché l’interprete più completo e più schietto del grandioso momento storico che, dalla morte di Giulio Cesare, conduce alla fondazione del Principato e dell’Impero ad opera di Augusto.

L’opera di Virgilio ha avuto una profondissima influenza sulla letteratura e sugli autori occidentali, in particolare su Dante Alighieri e la sua Divina Commedia, nella quale Virgilio funge anche da guida dell’Inferno e del Purgatorio.  Preso a modello e studiato sin dall’evo antico, anticipa i maggiori valori del cristianesimo.

Bucoliche

Le Bucoliche sono un’opera del poeta latino Publio Virgilio Marone, iniziata nel 42 a.C e divulgata intorno al 39 a.C. È costituita da una raccolta di dieci egloghe esametriche con trattazione e intonazione pastorali; i componimenti hanno una lunghezza che varia dai 63 ai 111 versi, per un totale di 829 esametri. Questa scelta colloca quindi l’opera nel solco neoterico-callimacheo, di ispirazione alessandrina e precisamente nel filone teocriteo.

“Bucoliche” deriva dal greco Βουκολικά (da βουκόλος = pastore, mandriano, bovaro); sono state definite anche ἐκλογαί, egloghe, ovvero “poesie scelte”. Esse furono il primo frutto della poesia di Virgilio, ma, nello stesso tempo, possono essere considerate la trasformazione in linguaggio poetico dei precetti di vita appresi dalla scuola epicurea di Napoli.

Georgiche

Le Georgiche (in latino Georgica, dal greco γεωργικός, “contadino”, o, più semplicemente, “agricoltura”) sono un poema di Publio Virgilio Marone, scritto in esametri, composto tra il 38 e il 29 a.C., diviso in quattro libri dedicati rispettivamente al lavoro nei campi, all’arboricoltura, all’allevamento del bestiame e all’apicoltura, per un totale di 2188 versi. Il titolo molto probabilmente deriva da un’opera del poeta greco didascalico Nicandro di Colofone.

L’opera fu “orientata” da Mecenate seguendo le ispirazioni ideologiche augustee: venne composta proprio nel periodo relativo all’affermazione di Ottaviano a Roma e nello stesso periodo in cui Virgilio entrò a far parte del circolo di Mecenate. Lo stile è più ricco e ricercato rispetto alle Bucoliche, anche se segue sempre i canoni dell’alessandrinismo.

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Libri, un modo per evadere dalla realtà quotidiana

Le ragioni per le quali i libri sono un’ottima ( ed economica ) forma di evasione

Basta aprire le pagine di un libro per entrare in una nuova realtà. Leggere è una forma d’evasione
«I libri sono una forma di evasione» è una delle frasi più ripetute, quando si elencano le qualità di un libro. Ma ci siamo mai soffermati a riflettere su quali siano i motivi che ci fanno indicano che un romanzo è un modo per sfuggire alla realtà ?

Noi ci siamo fatti un’idea e abbiamo individuato questi punti fondamentali.

1. Ci fanno viaggiare nel tempo. Senza pagare il biglietto

2. Durante la lettura ci isoliamo e, almeno per un po’, è come se il mondo fuori non esistesse

3. Ci fanno ridere, commuovere, piangere e sognare e i perché stanno tutti in quelle pagine

4. Ci fanno vivere delle avventure che non abbiamo mai vissuto…

5. … e alcune di queste comprendono viaggi nello spazio, draghi o una casa nell’Upper East Side

6. Tengono lontani gli scocciatori: sono un ottimo rifugio quando vogliamo sottrarci a qualche conversazione scomoda

7. Ascoltare le storie altrui è un buon modo per mettere in un angolo le proprie, per poi tornarci con un rinnovato punto di vista

Il potere delle parole è tale da trascinarci in mondi e in situazioni che nemmeno ci aspettiamo. Bastano pochi minuti, un posto tranquillo e un buon libro tra le mani. La magia sta tutta là.

( Tratto da Redazione BookToBook )

Librerie indipendenti e dell’usato a Roma

Il Libraio di una piccola realtà è vostro amico e vicino, sa consigliarvi e darvi attenzione come persona, prima che come cliente.

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Libri & Letture

Aggiornato al 19 Novembre 2023 

 

 

LIBRO: Il Sadismo di Nice Fowell

N. FOWELL, IL SADISMO, FIRENZE, IST. EDIT. IL PENSIERO, 1914

Il termine SADISMO fu introdotto dallo psichiatra Richard von Kraff-Ebing e deriva da Donatien Alphonse François de Sade, meglio conosciuto come Marchese de Sade ( 1740 – 1814 ), aristocratico francese autore di diversi libri erotici e di alcuni saggi filosofici, in cui è evidenziata la figura del sadico come individuo capace di compiere, con scientifica razionalità, ogni sorta di azione volta al male ( o meglio all’immoralità, dato che il soggetto non riconosce solitamente bene e male ma solo il tornaconto personale ), rifiutando ogni limitazione imposta dalla morale comune e riconoscendo come unica legge il perseguimento e l’accrescimento del proprio personale piacere.

Marchese de Sade

Donatien-Alphonse-François de Sade, signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, marchese e conte de Sade, conosciuto comunemente come Marchese de Sade ma anche come D.A.F. de Sade e soprannominato Divin marchese ( Parigi, 2 giugno 1740 – Charenton-Saint-Maurice, 2 dicembre 1814 ), è stato uno scrittore, filosofo, poeta, drammaturgo, saggista, aristocratico, criminale e politico rivoluzionario francese, delegato della Convenzione nazionale.

Appartenente a una famiglia di antica nobiltà, a partire dal 1800 e fino alla morte quattordici anni dopo, rinunciò a ogni titolo nobiliare e si firmò semplicemente «D.-A.-F. Sade». Per il periodo rivoluzionario utilizzò anche lo pseudonimo Louis Sade. Fu autore di tutta una serie di classici della letteratura erotica, drammi teatrali, testi vari e saggi filosofici, molti dei quali scritti mentre si trovava in prigione; la sua opera e il suo pensiero lo hanno fatto considerare un esponente dell’ala estremista del libertinismo, nonché dell’Illuminismo più radicale, ateo, materialista e anticlericale.

Il suo nome è all’origine del termine sadismo, atteggiamento che emerge dai suoi romanzi, incentrati sulla descrizione di comportamenti sessuali trasgressivi e perversi, quelli che saranno chiamati appunto “sadici”, oltre che su scene di esplicita violenza e sui temi filosofici della ricerca del piacere, consistente nel soddisfare gli istinti naturali (in Sade spesso derivanti dall’esercitare la crudeltà a fini sessuali), dell’ateismo e del rifiuto verso ogni forma di autorità costituita.[1]

Durante la sua vita Sade venne accusato (con l’assenso della sua famiglia, specie della suocera) di vari reati, come pratiche di violenza sessuale, di sodomia, di tentativi di avvelenamento e condotta immorale (legati alle vicende dette “affare di Arcueil” o caso di Rose Keller, e “affare di Marsiglia”), ma venne riconosciuto colpevole solo di “libertinaggio” (cioè condotta sessuale illegale) e produzione di materiale pornografico. Fu perseguito prima dal regime monarchico, poi, in quanto nobile, dalla Rivoluzione francese (a cui aveva aderito) e infine anche dal governo napoleonico.

Passò molti anni della sua vita, a causa di una lettre de cachet e di varie disposizioni successive, prima in carcere – tra cui alla Bastiglia per qualche anno – e poi all'”albergo dei pazzi” di Charenton, dove scrisse molte delle sue opere più celebri. Per molto tempo ritenuto un autore immorale o di scarso valore, è stato rivalutato e riscoperto nel XX secolo a opera del surrealismo, della psicoanalisi e dell’esistenzialismo. ( Wikipedia )

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Aggiornato al 5 Gennaio 2024

 

 

LIBRO: Dante Vivo di Giovanni Papini

 

GIOVANNI PAPINI, DANTE VIVO, LIB. ED. FIORENTINA, 1933, 1 ED AUTOGRAFATA

Sarà meglio dir subito, a scanso di malintesi e dispiaceri, che questo non è libro di professore per scolari, né di critico per critici, né di pedante per pedanti, né di un pigro compilatore per uso di pigri lettori. Vuol essere il libro vivo d’un uomo vivo sopra un uomo che dopo la morte non ha mai cessato di vivere. E’ il libro, innanzi tutto, d’un artista sopra un’artista, d’un cattolico sopra un cattolico, d’un fiorentino sopra un fiorentino.

“Dante è un mondo in compendio e anche, per scorcio, un popolo. Popolo non tutto omogeneo e concorde.
Vedo in lui, oltre il fiorentino del Duecento, un profeta ebreo, un sacerdote etrusco e un imperialista romano.
Era nutrito, come tutti i cristiani erano e dovrebbero essere, col midollo della Bibbia.
Ma ho il sospetto che si confacesse al suo spirito più il Vecchio Testamento che il Nuovo. E nel Vecchio doveva sentirsi più vicino ai Profeti.
Quel bisogno di avvertire, di ammonire, di minacciare, d’annunziare, in forma simbolica ma spesso ispirata e cruda, tanto i castighi che le salvazioni future, accomuna Dante ai grandi Profeti d’Israele.”

Giovanni Papini

Giovanni Papini nacque in una famiglia artigiana da Luigi Papini, ex garibaldino e repubblicano ateo e anticlericale, ed Erminia Cardini, che lo fece battezzare all’insaputa del padre. Ebbe un’infanzia e un’adolescenza prevalentemente solitarie. Attirato dalla letteratura, passò molto del suo tempo libero a leggere i libri della biblioteca del nonno prima e di quella pubblica poi ( Biblioteca Nazionale di Firenze ).

Dopo la prima guerra mondiale Papini trascorse anni di particolare travaglio spirituale, ma la vicinanza della moglie, l’amicizia e i benevoli rimproveri di Domenico Giuliotti, e altre persone che ne avevano sempre intuito il genio controcorrente e incompreso, lo accompagnarono nel suo percorso di scoperta della fede cristiana.

Nel 1921 annunciò la sua conversione religiosa pubblicando la Storia di Cristo, che si rivelò un successo editoriale internazionale. Basato sulla testimonianza dei Vangeli canonici e anche di quelli apocrifi, narra della vita di Gesù per invocarne la grazia verso l’umanità corrotta. Nel 1922, in seguito al successo dell’opera, l’Università del Sacro Cuore di Milano gli offrì la cattedra di letteratura italiana, che tuttavia Papini rifiutò.

Nel 1953 Papini fu colpito da una seria malattia: una paralisi progressiva che lo privò dell’uso delle gambe e delle braccia e perfino, nella sua fase terminale, della parola … e pressoché cieco negli ultimi anni di vita.

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LIBRO: Il Porto delle Nebbie di Pierre Mac Orlan

PIERRE MAC ORLAN, IL PORTO DELLE NEBBIE, JANDI SAPI, 1944, 1 EDIZIONE

«Una donna disposta a sfruttare se stessa, corpo e anima, senza restrizioni, senza scrupoli morali e senza misticismo, è una forza della natura paragonabile al­l’elettricità, di cui si governano i capricci senza mai penetrarne il mistero originario»: è questa, per quanto «scandalosa» e «immorale» possa sembrare, la conclusione alla quale giunge l’autore sulla soglia dell’epilogo del Porto delle nebbie. Ma tant’è: dei cinque personaggi che il destino fa incontrare, una notte di neve, in una bettola di Mont­martre ( quel Lapin Agile che solo molti anni dopo diventerà famoso ), l’unica a cavarsela davvero sarà Nelly, la fille de cabaret «al tempo stesso candida e furba» che finora non ha fatto altro che passare «attraverso l’esisten­za come una foglia morta, una foglia bionda spazzata dal vento». Al termine della memorabile notte trascorsa al Lapin Agile, dove sono stati costretti ad affrontare a colpi di pistola una banda di malviventi acquattati nel buio, i quattro uomini – il giovane squattrinato che aspetta un’avventura da «acchiappare al volo», il disertore della marina coloniale, il pittore tedesco che intuisce la presenza della morte nei luoghi che dipinge e l’inquietante macellaio dalle «terribili mani» – si avvieranno tutti verso un destino variamente funesto, mentre Nelly andrà incontro alla vita con passo da «conquistatrice». È stato Céline, nel 1938, a scrivere su Mac Orlan parole de­finitive: «Aveva già visto tutto, capito tutto, inventato tutto». ( Fonte: Adelphi )

Pierre Mac Orlan

Pierre Mac Orlan, nome d’arte di Pierre Dumarchais ( Péronne, 26 febbraio 1882 – Saint-Cyr-sur-Morin, 27 giugno 1970 ), è stato un artista e scrittore francese.  In vita sua fu bohémien, scrittore, soldato, pittore e reporter.

Fu creatore di un’opera imponente, dotata di notevole omogeneità nonostante la diversità delle forme artistiche; dal romanzo alla canzone, dal saggio alla poesia. Il concetto chiave su cui è imperniata la sua opera è il cosiddetto fantastico sociale.

Fu membro del “Collegio di patafisica” e dell’Académie Goncourt e scrisse centotrenta libri e sessantacinque canzoni. ( Wikipedia )

FILM

Jean, un disertore dell’esercito coloniale francese, è arrivato a Le Havre con la ferma intenzione di lasciare la Francia. Nel bar “Panama”, gestito dall’eccentrico individuo omonimo, incontra la bella Nelly, una malinconica ragazza terrorizzata dal suo tutore Zabel, che ella sospetta essere l’assassino del suo fidanzato Maurice. Per difendere Nelly dalle insidie del tutore, che si rivela essere un losco individuo e che si conferma essere l’autore del delitto, Jean uccide Zabel. Mentre sta per lasciare il paese, pronto a fuggire in Venezuela con una nuova identità, viene però assassinato in mezzo alla strada a colpi di pistola da Lucien, un giovane gangster locale del quale aveva scatenato l’odio, umiliandolo e prendendolo a schiaffi pubblicamente in diverse occasioni. ( Wikipedia )

 

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