LIBRO: Atlante della Grande Armee

ATLANTE DELLA GRANDE ARMEE

Guerre napoleoniche è il termine usato per definire l’insieme delle guerre combattute in Europa nel periodo in cui Napoleone Bonaparte governò la Francia. Furono in parte un’estensione delle guerre rivoluzionarie innescate dalla rivoluzione francese e continuarono durante tutto il Primo Impero francese.

Non esiste un consenso unanime nello stabilire quando si possano ritenere concluse le guerre rivoluzionarie francesi e cominciate quelle riconducibili a Napoleone Bonaparte. Una data possibile di inizio di queste ultime è il 9 novembre 1799, giorno in cui Bonaparte salì al potere in Francia con il colpo di Stato del 18 brumaio. La data di inizio usata più comunemente è il 18 maggio 1803, in occasione della rinnovata dichiarazione di guerra tra Gran Bretagna e Francia, dopo le reciproche accuse di violazione degli accordi sanciti con il trattato di Amiens, evento che pose termine all’unico periodo di pace generalizzata in Europa tra il 1792 e il 1814. Un’ultima data di inizio proposta è il 2 dicembre 1804, giorno nel quale Napoleone si incoronò imperatore. Le guerre napoleoniche ebbero termine dopo la disfatta finale di Napoleone nella battaglia di Waterloo il 18 giugno 1815 e il secondo Trattato di Parigi.

Il periodo che va dal 20 aprile del 1792 al 20 novembre 1815 viene anche indicato con il termine di “grande guerra francese”.

Battaglia di Austerlitz

La battaglia di Austerlitz, detta anche battaglia dei tre imperatori, fu l’ultima e decisiva battaglia svoltasi durante la guerra della terza coalizione, parte delle guerre napoleoniche.

Fu combattuta il 2 dicembre 1805 (11 frimaio, anno XIV del CRF) nei pressi della cittadina di Austerlitz (l’attuale comune di Slavkov u Brna nella Repubblica Ceca, nelle vicinanze di Brno) tra la Grande Armée francese composta da circa 73 000 uomini comandati dall’imperatore Napoleone Bonaparte e un’armata congiunta, formata da russi e austriaci, composta da oltre 85 000 uomini comandati dal generale russo Michail Illarionovič Kutuzov, con la collaborazione del generale austriaco Franz von Weyrother che era stato l’ideatore del piano di battaglia austro-russo.

Dopo avere accerchiato e distrutto un’intera armata austriaca durante la campagna di Ulma, le forze francesi occuparono Vienna l’11 novembre 1805. Gli austriaci riuscirono a evitare ulteriori combattimenti fino all’arrivo dei rinforzi russi. Napoleone necessitava di una vittoria decisiva e, per attirare gli avversari sul terreno di battaglia da lui scelto nei pressi di Austerlitz, finse di trovarsi in difficoltà facendo ripiegare le sue avanguardie e indebolendo deliberatamente il suo fianco destro. I generali austro-russi concentrarono la maggior parte delle forze contro la destra francese, sguarnendo pericolosamente il centro del loro fronte, che subì il violento attacco di sorpresa del IV Corpo del Maresciallo Nicolas Jean-de-Dieu Soult. Dopo il crollo del centro nemico, i francesi poterono sbaragliare entrambi i fianchi dello schieramento nemico e costrinsero gli alleati ad una fuga disordinata, catturando migliaia di prigionieri.

Francia e Austria conclusero un armistizio immediato cui seguì poco dopo, il 26 dicembre, la pace di Presburgo: il trattato poneva l’Austria fuori sia dalla guerra che dalla terza coalizione, confermando la perdita austriaca dei territori in Italia a favore della Francia e in Germania a favore degli alleati tedeschi di Napoleone. La cruciale vittoria ad Austerlitz permise a Napoleone di creare la Confederazione del Reno; di conseguenza il Sacro Romano Impero cessò di esistere nel 1806 con l’abdicazione di Francesco II dal trono imperiale.

La battaglia di Austerlitz rappresenta il più grande successo raggiunto da Napoleone nella sua carriera militare e ha assunto una statura quasi mitica nell’epopea napoleonica. Grazie alla precisa esecuzione dell’audace ma ingegnoso piano dell’imperatore, i francesi conseguirono una vittoria schiacciante, e la battaglia è spesso celebrata come il capolavoro di Napoleone per l’abilità di cui egli diede prova e, per i risultati raggiunti, è stata paragonata alla battaglia di Canne, il famoso trionfo di Annibale. ( Wikipedia )

 

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LIBRO: Ordine Nuovo Edizioni 1919-20 e 1924-25

L’ORDINE NUOVO, 1919-20, 1924-25, REPRINT DEL CALENDARIO

L’Ordine Nuovo è stata una pubblicazione a periodicità variabile fondata a Torino il 1º maggio 1919 da Antonio Gramsci ed altri intellettuali socialisti torinesi ( Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini ).

L’Ordine Nuovo, la cui sede era in via dell’Arcivescovado, la stessa dell’edizione torinese de L’Avanti!, fu nel suo inizio un giornale nato come rassegna settimanale di cultura socialista.

La svolta redazionale all’interno de L’Ordine Nuovo arriva con la pubblicazione, il 21 giugno 1919, dell’articolo Democrazia operaia.

Democrazia operaia propone di “scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano”, trasformando la rivista in organo di propulsione, in centro rivoluzionario di nuove forme organizzative, di nuovi istituti da creare anche in Italia sul modello dei soviet. Emerge la grande idea-forza de L’Ordine Nuovo, quella dei consigli di fabbrica, organi dell’autogoverno operaio, che dovranno potenziare politicamente le commissioni interne al livello “soviettista” di altrettanti istituti di democrazia proletaria eletti da tutte le maestranze delle officine torinesi. “Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalismo nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate e arricchite dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Già fin d’oggi gli operai dovrebbero procedere alle elezioni di vaste assemblee di delegati, scelti tra i migliori e più consapevoli, sulla parola d’ordine: Tutto il potere dell’officina ai comitati di fabbrica, coordinata all’altra: Tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini.»

La piattaforma rivoluzionaria de L’Ordine Nuovo opera il proprio collaudo nel 1920. Le posizioni de L’Ordine Nuovo ebbero l’approvazione di Lenin e nello scontro interno al PSI si avvicinò all’ala astensionista guidata da Amedeo Bordiga, che auspicava la costituzione di una sezione italiana dell’Internazionale comunista.

Cessate le pubblicazioni come rivista il 24 dicembre 1920, L’Ordine Nuovo diventa il 1º gennaio 1921 quotidiano; del settimanale fondato nel 1919 conserva solamente la testata, mentre la struttura organizzativa impiegata da Gramsci è la stessa che aveva preso forma nella redazione dell’edizione piemontese dell’Avanti!. Il 21 gennaio, con la formazione del Partito Comunista d’Italia a Livorno, il giornale assume la dizione “quotidiano del Partito comunista”, e dal 16 ottobre dello stesso anno “organo del Partito comunista”, «secondo la linea tracciata dal Congresso dell’Internazionale e secondo la tradizione della classe operaia torinese». Il 25 novembre 1922 sospende le pubblicazioni. Nel febbraio 1924 Gramsci fonda il quotidiano L’Unità.

L’Ordine Nuovo riprende le pubblicazioni, con una nuova serie, il 1º marzo 1924 a Roma, come rassegna di politica e di cultura operaia, con Ruggero Grieco gerente responsabile e successivamente Felice Platone, pubblicando, sebbene formalmente a periodicità quindicinale, in modo discontinuo gli ultimi otto numeri fino al marzo 1925. ( Wikipedia )

 

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LIBRO: I Duchi d’Este e la Mantova del Rinascimento. La figura di Isabella d’Este

La Casa d’Este, i cui membri sono noti anche come Estensi, fu un’antica dinastia italiana discendente dalla Casata degli Obertenghi e che prese il nome dalla città di Este (attuale comune in provincia di Padova), loro feudo tra il 1056 e il 1239.

Signori, dal 1208, e poi duchi, dal 1471, di Ferrara[7], città unita da vincoli di vassallaggio allo Stato Pontificio, estesero in seguito i loro domini anche su Modena (1288), Reggio Emilia (1288), Fanano (1352), Garfagnana (1429/1451), Carpi (1527), Correggio (1636), Mirandola (1711), Novellara (1737), Massa e Carrara (1790). Persero il Ducato di Ferrara nel 1598, che confluì nei domini dello Stato Pontificio, e continuarono a regnare su quello di Modena e Reggio, che persero nel 1796 e ottennero nuovamente nel 1814 come Asburgo-Este, con l’aggiunta di Guastalla (1847). Il ramo cadetto continuò a regnare fino al 1859, anno dell’annessione del Ducato di Modena e Reggio nei domini del Regno di Sardegna, alle porte della nascita del Regno d’Italia e della completa unificazione della penisola.

Isabella d’Este

Isabella d’Este ( Ferrara, 17 maggio 1474 – Mantova, 13 febbraio 1539 ) fu una delle donne più autorevoli del Rinascimento e del mondo culturale italiano del suo tempo. Fu mecenate delle arti, nonché leader della moda, il cui innovativo stile di vestire venne copiato da donne in tutta Italia e alla corte francese. Il poeta Ludovico Ariosto la etichettò come “Isabella liberale e magnanima”, mentre Matteo Bandello la descrisse come essere stata “suprema tra le donne”. Il diplomatico Niccolò da Correggio andò anche oltre, salutandola come “La prima donna del mondo”.

«D’opere illustri e di bei studî amica,
Ch’io non so ben se più leggiadra e bella
Mi debba dire, o più saggia e pudica,
Liberale e magnanima Isabella,
Che del bel lume suo dì e notte aprica
Farà la terra che sul Menzo siede»

( Ludovico Ariosto, Orlando Furioso XIII )

Fu reggente del marchesato di Mantova durante l’assenza del marito, Francesco II Gonzaga e per conto del figlio minore, Federico, quinto marchese e futuro duca di Mantova. Nel 1500 incontrò il re di Francia Luigi XII a Milano in missione diplomatica per convincerlo a non inviare le sue truppe contro Mantova. Prolifica scrittrice di lettere, mantenne una corrispondenza per tutta la vita con la cognata Elisabetta Gonzaga. Un’altra sua cognata, Lucrezia Borgia, divenne l’amante del marito di Isabella, Francesco. Isabella svolse un ruolo importante a Mantova durante i tempi difficili della città. Quando il marito fu catturato nel 1509 e poi tenuto in ostaggio a Venezia, fu lei a prendere il controllo delle forze militari di Mantova. Francesco fu liberato nel 1510 grazie al comportamento di Isabella, che aveva accettato perfino di dare in ostaggio il figlio Federico a papa Giulio II a garanzia della condotta politica del marito. Nello stesso anno, fu la padrona di casa del Congresso di Mantova, indetto per risolvere questioni riguardanti Firenze e Milano. Il comportamento di Isabella durante la lunga prigionia di Francesco provocò risentimento in quest’ultimo, che avrebbe poi escluso formalmente la moglie dalla guida dello Stato, ragion per cui la marchesa lasciò Mantova per soggiornare a Milano e a Napoli. Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1519, la vedova Isabella, all’età di 45 anni, divenne un “devoto capo di Stato”. La sua posizione come marchesa richiese un serio impegno: fu necessario per lei studiare per affrontare i problemi di un governatore di una città-stato. Per migliorare il benessere dei suoi sudditi, studiò architettura, agricoltura e industria, e seguì i principi che Niccolò Machiavelli aveva previsto per i governanti nel suo libro Il Principe. In cambio, gli abitanti di Mantova la rispettarono e le vollero bene. Isabella governò Mantova come reggente del figlio Federico, giocando un ruolo importante nella politica italiana del tempo e rafforzando costantemente il prestigio del marchesato mantovano. Fra i suoi molteplici e importanti risultati vi furono l’elevazione di Mantova a ducato e l’ottenimento del titolo di cardinale per il figlio minore Ercole. ( Wikipedia )

 

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LIBRO: Il Partito Armato di Giorgio Galli

GIORGIO GALLI: IL PARTITO ARMATO

Il Partito Armato è una definizione alternativa giornalistica delle Brigate Rosse.

Brigate Rosse

Le Brigate Rosse ( BR ) sono state un’organizzazione terroristica italiana di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.

Di matrice marxista-leninista, è stato il maggiore, il più numeroso e il più longevo gruppo terroristico di sinistra del secondo dopoguerra esistente in Europa occidentale.

In base ai racconti di alcuni dei principali militanti, la decisione di intraprendere la lotta armata sarebbe stata presa in un convegno tenuto nell’agosto del 1970 in località Pecorile, comune di Vezzano sul Crostolo (RE) a cui partecipò un centinaio di delegati dell’estremismo di sinistra provenienti da Milano, Trento, Reggio Emilia e Roma[3]. Nell’organizzazione confluirono i militanti del cosiddetto «gruppo reggiano», tra cui Alberto Franceschini, quelli del gruppo proveniente dall’Università di Trento, tra cui Renato Curcio e Margherita Cagol, e quelli del gruppo di operai e impiegati delle fabbriche milanesi Pirelli e Sit-Siemens.

Le prime azioni rivendicate come «Brigate Rosse» risalgono al 1970, e continuarono con il massimo dell’attività tra il 1977 e il 1980. Dopo una fase di cosiddetta «propaganda armata» con attentati dimostrativi all’interno delle fabbriche e sequestri di dirigenti industriali e magistrati, dal 1974 al 1976 vennero arrestati o uccisi i principali brigatisti del gruppo iniziale. Da quel momento la direzione dell’organizzazione passò ai brigatisti nel nuovo Comitato Esecutivo in cui assunse un ruolo determinante Mario Moretti, che potenziarono notevolmente la capacità logistico-militare del gruppo, estendendo l’azione – oltre che nelle città del Nord – anche a Roma e Napoli, moltiplicando gli attacchi sempre più cruenti contro politici, magistrati, industriali e forze dell’ordine.

Momenti culminanti dell’attività del gruppo furono l’agguato di via Fani e il sequestro Moro nella primavera 1978; con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro le Brigate Rosse sembrarono in grado di influire in modo decisivo sull’equilibrio politico italiano e di poter sovvertire l’ordine democratico della Repubblica.

L’organizzazione entrò in crisi nei primi anni ottanta per il suo irreversibile isolamento all’interno della società italiana e venne progressivamente distrutta grazie alla crescente capacità di contrasto da parte delle forze dell’ordine, e anche grazie alla promulgazione di una legge dello Stato italiano che concedeva cospicui sconti di pena ai membri che avessero rivelato l’identità di altri terroristi. Nel 1987 Renato Curcio e Mario Moretti firmarono un documento in cui dichiaravano conclusa l’esperienza delle BR.

Secondo l’inchiesta di Sergio Zavoli La notte della Repubblica, dal 1974 (anno dei primi omicidi ad esse attribuiti) al 1988 le Brigate Rosse hanno rivendicato 86 omicidi: la maggior parte delle vittime era composta da agenti di polizia e carabinieri, magistrati e uomini politici. A questi vanno aggiunti i ferimenti, i sequestri di persona e le rapine compiute per «finanziare» l’organizzazione.

Renato Curcio ha calcolato che 911 persone sono state inquisite per avere fatto parte delle BR, alle quali vanno aggiunte altre 200-300 persone facenti parte dei vari gruppi armati che dalle BR si staccarono ( Partito Comunista Combattente, Unità Comuniste Combattenti, Partito Guerriglia, Colonna Walter Alasia ).

Il sequestro Sossi e i primi morti

Tra il 1973 e il 1974, le BR allargarono i loro rapporti organizzativi in varie regioni: consolidando i contatti con operai dei Cantieri Navali Breda e del Petrolchimico di Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta; in Liguria, con alcuni operai dell’Italsider, fu creata la colonna genovese; nelle Marche si strinsero relazioni con esponenti dei Proletari Armati in Lotta, alcuni dei quali daranno vita al comitato marchigiano delle BR.

La prima azione condotta contro un esponente dello Stato fu il rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi, avvenuto a Genova il 18 aprile del 1974. Sossi, che era stato pubblico ministero nel processo contro il gruppo armato genovese della XXII Ottobre, fu rapito e tenuto prigioniero in un villino vicino Tortona. Sottoposto a un «processo» dai brigatisti ( Franceschini, la Cagol e Piero Bertolazzi ), venne condannato a morte (lo slogan in voga all’epoca era: «Sossi fascista, sei il primo della lista!»). I brigatisti, però, offrirono allo Stato un’opzione, ovvero chiesero in cambio della sua liberazione la scarcerazione dei membri della XXII Ottobre detenuti (in una sorta di «scambio di prigionieri» tra BR e Stato) che avrebbero ottenuto un salvacondotto per Cuba, la Corea del Nord o per l’Algeria. Durante l’«operazione Girasole» la famiglia del rapito era favorevole alla trattativa, Sossi manifestava un crescente risentimento verso il governo e i suoi superiori, il procuratore generale di Genova Francesco Coco si opponeva fermamente a ogni cedimento, mentre politici come Lelio Basso dichiaravano: «Preferisco dei colpevoli in libertà piuttosto che uccidere un uomo». Paolo Emilio Taviani, Ministro dell’Interno, respinse il ricatto brigatista, il Tribunale di Genova offrì di rivedere la posizione dei detenuti della XXII Ottobre sfruttando le possibilità offerte dalle norme processuali, ma il procuratore Francesco Coco ribadì il proprio «no» a qualsiasi forma di ricatto. Il 18 maggio le BR diedero un ultimatum di 48 ore, scaduto il quale, Sossi sarebbe stato ucciso: due giorni dopo la Corte d’appello di Genova concesse la libertà provvisoria agli otto detenuti, ordinando la scarcerazione. Il Ministro dell’Interno diede l’ordine di circondare il carcere di Marassi per impedire la messa in libertà dei detenuti, il procuratore generale impugnò l’ordinanza ricorrendo in Cassazione: i detenuti non poterono essere rimessi in libertà prima della decisione della Suprema Corte. Le BR decisero di rilasciare Sossi, senza ottenere una contropartita[8]. Il magistrato venne liberato a Milano il 23 maggio 1974, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza.

Francesco Coco sarà poi ucciso a Genova l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta divenendo il primo magistrato ucciso durante gli anni di piombo.

Il sequestro Sossi fu considerato un successo d’immagine delle BR, che nel periodo successivo iniziarono a ipotizzare il sequestro di Giulio Andreotti e di Gritti, collaboratore di Eugenio Cefis, per portare l’attacco al cuore dello Stato.

Il 17 giugno 1974 le BR commisero a Padova il loro primo delitto: nel corso di un’incursione nella sede del MSI di via Zabarella, furono uccisi, pur in assenza di pianificazione, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Il nucleo veneto gestì l’evento, rivendicandolo all’interno della pratica dell’antifascismo militante. Le Brigate Rosse, a livello nazionale, pur assumendone la responsabilità, ribadirono che la questione centrale dell’intervento armato era l’attacco allo Stato e non l’antifascismo militante. Inizialmente si pensò a una faida interna tra i gruppi neofascisti, ma poi arrivò la rivendicazione brigatista, nel cui volantino c’era scritto: «Un nucleo armato ha occupato la sede del Msi a Padova. Due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati. Il Msi di Padova è quello da cui sono usciti gruppi e personaggi del terrorismo antiproletario che hanno diretto le trame nere dalla strage di piazza Fontana in poi… Le forze rivoluzionarie sono… legittimate a rispondere alla barbarie fascista con la giustizia armata del proletariato.».  ( Wikipedia )

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