LIBRI: I Sonetti di Gioachino Belli

BELLI, I SONETTI, A CURA DI G. VIGOLO, MONDADORI, 3 VOLL., 1952

Belli tenne sempre nascosti i suoi Sonetti, che mostrò e recitò solo ad amici fidati. Dei 23 pubblicati durante la sua vita, solo uno uscì con il suo consenso: un omaggio in versi all’attrice Amalia Bettini che apparve nel 1835 su una rivista teatrale milanese. Meditò tuttavia a lungo di pubblicarli, a partire dal 1831, quando cominciò a sgorgare fluente la sua vena romanesca, che produrrà oltre duemila sonetti prima di arrestarsi nel turbine politico e militare che sconvolse Roma nel 1848-49.

Coabitarono in lui la tentazione di bruciarli e la volontà di predisporli per una stampa futura, magari postuma. Nelle sue carte testamentarie ordinò di distruggerli ma affidò in mani sicure i loro autografi, corredati da preziose note per lettori non romani, e disconobbe le copie apocrife o deformate che circolavano sotto il suo nome, in manoscritti o in opuscoli stampati alla macchia.

La prima vera edizione delle Poesie inedite belliane, che uscì nel 1865-66, due anni dopo la morte del poeta, a cura del figlio Ciro, contiene 166 poesie italiane in vario metro e 797 sonetti romaneschi, un terzo circa del corpus.

Per prevenire la censura pontificia vennero scartati i testi di satira politica e religiosa e quelli di materia erotica. I sonetti inclusi vennero depurati dalle espressioni indecenti e dai riferimenti polemici al clero. Pur così castigata, e perciò criticata, questa silloge è frutto di un’iniziativa coraggiosa, intrapresa quando Porta Pia era ancora intatta.

L’anno della breccia, 1870, uscì l’antologia di Duecento sonetti che Luigi Morandi attinse in parte dalla stampa purgata, in parte dalla «tradizione popolare»: nonostante questi limiti, l’antologia pubblicata da un editore di importanza nazionale, il Barbèra di Firenze, diede un sensibile impulso alla conoscenza di Belli oltre i sette colli. La prima edizione complessiva e fondata sugli autografi uscì tra il 1886 e il 1889 per le cure dello stesso Morandi, che aggiunse note integrative a quelle dell’autore: vi riunì i 2143 sonetti allora noti – altri 123 saranno rintracciati poi – e li dispose in ordine cronologico, con la rilevante eccezione dei sonetti osceni, estrapolati e riuniti in tomo a sé, che divenne un vero bestseller.

Una svolta decisiva nella tradizione a stampa dei Sonetti si ha nel 1952 con l’edizione di Giorgio Vigolo, corredata di un’attenta annotazione che, per i sonetti più congeniali al criticopoeta, si dilata in suggestivi commenti. Egli riporta i 2279 sonetti secondo la lezione degli autografi, fatta salva l’uniformazione dell’oscillante grafia diacritica del poeta; li dispone in ordine cronologico, con la rilevante eccezione della lunga collana sul colera, Er còllera mòribbus, posta a chiusura della raccolta, come fosse un poemetto autonomo. Importanti acquisti per chiarire la genesi e l’elaborazione dei Sonetti si hanno con la pubblicazione degli appunti preparatori e delle varie stesure dell’Introduzione belliana (Roberto Vighi, Belli romanesco, 1966) e delle correzioni d’autore (Pietro Gibellini, Le varianti autografe dei sonetti romaneschi, 1973). Con la monumentale Edizione nazionale (Poesie romanesche, 1988-93), Vighi arricchisce la raccolta di un massiccio corredo esegetico; sul piano strutturale segue a grandi linee l’ordine cronologico, accostando però liberamente sonetti di tema affine ma di data diversa. ( Einaudi )

Gioachino Belli

L’opera del Belli, principalmente nota per i suoi sonetti, rappresenta con felice sintesi la mentalità dei popolani romani, lo spirito salace, disincantato, furbesco e sempre autocentrico della plebe, come egli la denomina, rendendo con vividezza una costante traduzione in termini ricercatamente incolti delle principali tematiche della quotidianità.

L’aspetto ierocratico della Roma dei papi, della Roma del “Papa Re”, che incrocia le vicissitudini del popolano nelle ritualità religiose e nelle liturgie giuridiche, nell’immanenza politica come nella sacralizzazione del pratico, è sempre, in ogni verso svolto nell’ottica del vulgus, che sue proprie conclusioni trae secondo quanto di sua percezione. In questo senso è stato discusso se l’opera belliana, come inizialmente accadde, possa ancora tout-court ascriversi al verismo, che intanto dava migliori prove nella prosa, o se invece non sia il caso di riconsiderarla fra le categorie che, avvicinandosi al picaresco per tematiche e contestualizzazioni, trovano un certo fattore comune nella forma della poesia dialettale italiana.

Da un punto di vista letterario, si tratta della produzione più corposa della poesia dialettale italiana dell’Ottocento, e, in termini linguistici, si tratta di un documento di inestimabile valore sulle mille possibili articolazioni del romanesco, di cui isola un tipo oramai classico, mentre il tempo trascorso ha provveduto a farlo evolvere.

A chi vi veda (posizione non maggioritaria) solo un carattere di poesia minore, personalistica, ad usi familiari, si contrappone chi vi riconosce il registro storico di una fase culturale popolare, un secolo prima che l’esigenza di catalogare e studiare e, prima ancora, di raccogliere, gli elementi espressivi dei ceti bassi, certamente quelli anche proverbiali, divenisse sentimento diffuso. Il corpo dei sonetti raggiunge anche un obiettivo non secondario delle opere letterarie, il piacere della lettura, agevolato dalla costante e intrigante trasparenza del personale diletto dell’Autore nella sua estensione.

Eppure il realismo è parte del modo narrativo belliano, quantunque non esclusivo. Del realismo Belli fu certo attento osservatore, avendone peraltro selezionato materiale per il suo Zibaldone, ma l’inclinazione verso una satira di sistema, velenosa proporzionalmente alla presunta impossibilità di portare a moralistica “redenzione” i cattivi costumi che punge, sposta la classificabilità verso parametri solo apparentemente più “leggeri”, e difatti dell’opera si hanno inquadramenti nelle categorie dell’umorismo, della “cronica”, del lazzo e – per estremo – della letteratura scandalistica. Come per altre opere di tutte le letterature, al piacere di degustarne l’arguzia, si è spesso aggiunta la morbosità per la dirompente frequenza di ricorso a termini e locuzioni, o proprio a situazioni tematiche, di drastico scandalo.

Al Belli che di fatto componeva un’opera moralisteggiante, senza limiti e senza rispetto delle inibizioni “morali” della letteratura ufficiale, con l’aggravante di essere egli censore ufficiale per ragioni di pubblica moralità, non si riconobbe se non sottovoce, quasi clandestinamente, valore letterario, almeno sin quando (nella seconda metà del Novecento) la cultura ufficiale non prese atto, restituendolo come nozione, che presso il popolo erano in uso il turpiloquio e la semplificazione in senso materiale delle tematiche riguardanti la religione (il “Timor di Dio”), il pudore sessuale e altri argomenti di pari delicatezza.

I sonetti, 2.279 per circa 32.000 versi – più del doppio dei versi della Divina Commedia dantesca -, sono spesso accostati alla proverbialistica poiché nel loro complesso dipingono con ampiezza di dettaglio la filosofia dei Romaneschi del tempo (da non confondersi con i Romani, ai quali il Poeta diceva di appartenere), costituendone impercettibilmente, come dall’Autore stesso dichiarato, “monumento”. ( Wikipedia )

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Aggiornato al 5 Gennaio 2024